È molto più autentica di quanto si pensi.
Uno dei libri studiati all’università che più mi sono rimasti impressi e hanno influenzato la mia visione del mondo è La vita quotidiana come rappresentazione di Erving Goffman, un testo di sociologia del 1959 scritto in modo accessibile a chiunque, senza nessuna pomposità accademica, e la cui lettura risulta davvero illuminante.
In estrema sintesi, Goffman utilizza la metafora del teatro per descrivere le nostre interazioni con gli altri. Come diceva già Shakespeare nella sua famosa citazione “Tutto il mondo è un teatro e tutti gli uomini e le donne non sono che attori: essi hanno le loro uscite e le loro entrate; e una stessa persona, nella sua vita, rappresenta diverse parti”, in ogni situazione quotidiana siamo chiamati a interpretare un ruolo diverso, adattando vestiario, comportamenti, linguaggio e personalità al contesto specifico, per la buona riuscita di quell’interazione. Esempio banale: in ufficio sembrerebbe tanto fuori luogo adottare la stessa informalità che abbiamo a casa, che tra le mura domestiche mantenere lo stesso rigido contegno che richiede il posto di lavoro.
Per un riassunto breve ma esaustivo del libro di Goffman vi rimando qui. In questo post, invece, vorrei usare questo approccio per analizzare, dal punto di vista di un copywriter, come viene rappresentata la vita quotidiana nella pubblicità e soprattutto perché viene rappresentata così.
Prendiamo la situazione più classica che viene riprodotta in 9 spot di prodotti alimentari su 10: c’è una famiglia (o una coppia, a seconda del target di riferimento) seduta a tavola per la colazione o il pranzo. Le età dei componenti, sempre in base a chi vogliamo parlare, possono essere diverse, ma tutti sono sempre sorridenti, rilassati e immersi un’atmosfera gioiosa. Ben vestiti e pettinati intorno a una tavola apparecchiata con cura, in un ambiente piacevole.
La critica automatica che scatta davanti a questo tipo di spot è che tale perfezione è irreale, uno stereotipo che non rappresenta per nulla la quotidianità. Invece basta rifletterci per capire che non è così: è soltanto una “rappresentazione” ben riuscita dove tutti gli “attori” si impegnano al massimo per renderla tale.
Se pensiamo a un pranzo in compagnia, ad esempio, per mantenere la conversazione piacevole ovviamente bisogna astenersi dall’introdurre argomenti che potrebbero guastarla – quindi, proprio come un attore, pronunciare solo le battute giuste per mantenere viva la commedia. E, come ad esempio accade durante le feste, maggiore è l’impegno nei “costumi”, nella preparazione della tavola e dei piatti, nella creazione dell’atmosfera e nella collaborazione di tutti nel “non rovinare la festa”, maggiore il risultato sarà godibile per tutti. E quindi simile alla situazione idilliaca dello spot.
In questo senso, dunque, la pubblicità non è una falsa messinscena della realtà, ma semplicemente quella che più si avvicina ai nostri desideri (autentici) legati all’utilizzo di quel prodotto: vorrei davvero godermi così il viaggio a bordo di quell’auto, sentirmi così mangiando quella merendina, spassarmela così durante quella crociera, eccetera.
Sembra un paradosso, ma in quest’ottica non è la pubblicità a essere staccata dalla vita reale, ma il contrario: è solo che, a differenza dei (veri) attori dello spot, noi spesso non ci impegniamo abbastanza nella nostra performance (nel senso di Goffman, appunto) per la buona riuscita della situazione, che sia una colazione veloce, un colloquio di lavoro o un discorso presidenziale.