Cosa rende un copywriter freelance affidabile? (The Copylight Zone #17)

Elementare: il fatto di essere un copywriter freelance.

Negli anni, mi è capitato spesso di incontrare diffidenza verso i creativi freelance da parte di agenzie e aziende.

Mi farà un preventivo spropositato? Presenterà delle proposte valide? Rispetterà le scadenze? Sarà disponibile a eventuali rilavorazioni? In apparenza sono dubbi sensati, ma in realtà per smontarli bastano poche argomentazioni – semplici e razionali, niente fuffa da venditori di tappeti digitali:

  • un copywriter freelance desidera sia il rispetto dei suoi standard professionali, sia prendere il lavoro. Quindi il suo preventivo non sarà né basso né alto, bensì equo. Se, come me, lavora in modo autonomo da più di un decennio, anche da una descrizione sommaria dei materiali da produrre saprà quantificare un fee corretto. E no, non esistono tariffari fissi, che peraltro sarebbero illegali per un copywriter. A ogni lavoro, la sua giusta quotazione.
  • un copywriter freelance, una volta ottenuto un primo incarico, ci terrebbe ad averne altri. Dunque, nel suo interesse oltre che in quello del cliente, si impegnerà al massimo per ideare proposte valide e soddisfacenti. Inoltre, se come nel mio caso ha lavorato per strutture, brand e tipologie di progetti molto eterogenei, avrà la necessaria esperienza e flessibilità per entrare subito nel mood del lavoro e pensare a soluzioni con punti di vista e tagli creativi originali, di maggiore impatto rispetto – caso classico – a un creativo interno che, dopo anni sullo stesso cliente, potrebbe aver perso un po’ di entusiasmo e freschezza.
  • sul rispetto delle scadenze, inutile dilungarsi. E’ il primo punto da rispettare non solo per ricevere altri lavori, ma anche per essere pagati per quello attuale. E nessun copywriter freelance ama lavorare senza compenso.
  • un copywriter freelance serio, nel preventivo, indica con precisione la natura e l’estensione del suo intervento. Perciò, di norma, le rilavorazioni sono comprese nella cifra pattuita fino a un certo numero, con maggiorazioni se dovessero prolungarsi. Ma, anche qui, è nell’interesse del copywriter freelance chiudere al meglio il lavoro nel minor tempo possibile. Per questo, cercherà di risolvere il brief con estrema precisione fin dall’inizio.

Altri dubbi? Contattami pure.

Vedrai che, anche se un copywriter freelance non è un giocatore della tua squadra ma una “riserva” dell’ultimo minuto, saprà farsi valere.

Un po’ come quando Tom Becker, sconosciuto a tutti, sostituisce Bruce Harper infortunato nella partita contro la Saint Francis e trova, fin da subito, una perfetta armonia di gioco con Holly Hutton e il resto della Niuppi. Un ottimo parallelismo per chi coglie la citazione, cioè spero tutti.

Pubblicità

La pubblicità come rappresentazione della vita quotidiana. (The Copylight Zone #16)

È molto più autentica di quanto si pensi.

Uno dei libri studiati all’università che più mi sono rimasti impressi e hanno influenzato la mia visione del mondo è La vita quotidiana come rappresentazione di Erving Goffman, un testo di sociologia del 1959 scritto in modo accessibile a chiunque, senza nessuna pomposità accademica, e la cui lettura risulta davvero illuminante.

In estrema sintesi, Goffman utilizza la metafora del teatro per descrivere le nostre interazioni con gli altri. Come diceva già Shakespeare nella sua famosa citazione “Tutto il mondo è un teatro e tutti gli uomini e le donne non sono che attori: essi hanno le loro uscite e le loro entrate; e una stessa persona, nella sua vita, rappresenta diverse parti”, in ogni situazione quotidiana siamo chiamati a interpretare un ruolo diverso, adattando vestiario, comportamenti, linguaggio e personalità al contesto specifico, per la buona riuscita di quell’interazione. Esempio banale: in ufficio sembrerebbe tanto fuori luogo adottare la stessa informalità che abbiamo a casa, che tra le mura domestiche mantenere lo stesso rigido contegno che richiede il posto di lavoro.

Per un riassunto breve ma esaustivo del libro di Goffman vi rimando qui. In questo post, invece, vorrei usare questo approccio per analizzare, dal punto di vista di un copywriter, come viene rappresentata la vita quotidiana nella pubblicità e soprattutto perché viene rappresentata così.

Prendiamo la situazione più classica che viene riprodotta in 9 spot di prodotti alimentari su 10: c’è una famiglia (o una coppia, a seconda del target di riferimento) seduta a tavola per la colazione o il pranzo. Le età dei componenti, sempre in base a chi vogliamo parlare, possono essere diverse,  ma tutti sono sempre sorridenti, rilassati e immersi un’atmosfera gioiosa. Ben vestiti e pettinati intorno a una tavola apparecchiata con cura, in un ambiente piacevole.

La critica automatica che scatta davanti a questo tipo di spot è che tale perfezione è irreale, uno stereotipo che non rappresenta per nulla la quotidianità. Invece basta rifletterci per capire che non è così: è soltanto una “rappresentazione” ben riuscita dove tutti gli “attori” si impegnano al massimo per renderla tale.

Se pensiamo a un pranzo in compagnia, ad esempio, per mantenere la conversazione piacevole ovviamente bisogna astenersi dall’introdurre argomenti che potrebbero guastarla – quindi, proprio come un attore, pronunciare solo le battute giuste per mantenere viva la commedia. E, come ad esempio accade durante le feste, maggiore è l’impegno nei “costumi”, nella preparazione della tavola e dei piatti, nella creazione dell’atmosfera e nella collaborazione di tutti nel “non rovinare la festa”, maggiore il risultato sarà godibile per tutti. E quindi simile alla situazione idilliaca dello spot.

In questo senso, dunque, la pubblicità non è una falsa messinscena della realtà, ma semplicemente quella che più si avvicina ai nostri desideri (autentici) legati all’utilizzo di quel prodotto: vorrei davvero godermi così il viaggio a bordo di quell’auto, sentirmi così mangiando quella merendina, spassarmela così durante quella crociera, eccetera.

Sembra un paradosso, ma in quest’ottica non è la pubblicità a essere staccata dalla vita reale, ma il contrario: è solo che, a differenza dei (veri) attori dello spot, noi spesso non ci impegniamo abbastanza nella nostra performance (nel senso di Goffman, appunto) per la buona riuscita della situazione, che sia una colazione veloce, un colloquio di lavoro o un discorso presidenziale.

 

Alcuni problemi che può avere un copywriter freelance a Milano. (The Copylight Zone #15)

Ad esempio c’è molta concorrenza, quindi per posizionare meglio il tuo sito devi ripetere molte volte “copywriter freelance a Milano” nei post del tuo blog.

1) Poco lavoro. Questo in genere accade in agosto e a fine anno. La soluzione è accettare, prima di questi periodi, dei progetti impegnativi che coprano anche questi mesi, oppure concentrarsi su altro. O semplicemente riposare, cosa di cui anche un copywriter freelance a Milano ogni tanto ha bisogno.

2) Troppo lavoro. Spesso capita di dover rifiutare dei progetti per mancanza di tempo e soprattutto di testa. In questo caso l’ideale è capire dove conviene di più investire le proprie energie, bilanciando aspetti economici e creativi. Non sempre è facile, perché la tipica sfortuna del copywriter freelance a Milano è quella di vedersi proporre un bel progetto impegnativo dopo che ne hai appena accettato uno meno bello (ma altrettanto se non più impegnativo), che però a quel punto non è più possibile abbandonare.

3) Isolamento. L’80-90% del tempo un copywriter freelance a Milano lo passa a scrivere da solo nel proprio studio. La soluzione qui potrebbe essere andare in un coworking, se l’affitto per la postazione non è troppo elevato. Oppure al parco, quando non fa troppo freddo. O ancora in un bar, se il wi-fi e i cappuccini sono buoni.

4) Pagamenti. Specie se lavori spesso con nuovi clienti, è inevitabile incappare anche in persone disoneste. Qui le soluzioni sono semplici: mai iniziare un lavoro senza un preventivo firmato dove condizioni e tempistiche di pagamento siano esposte in modo chiaro e dettagliato, eventualmente chiedere un anticipo e/o fissare delle penalità crescenti se il bonifico arriva in ritardo, emettere fattura soltanto in data del pagamento (molti copywriter freelance a Milano, e lavoratori autonomi e liberi professionisti in genere, non conoscono la possibilità di spedire una notula pro forma al termine del lavoro, anziché subito la fattura).

5) Vacanze. A me non interessano granché, però suppongo che ad altri copywriter freelance a Milano sì. In generale quindi non mi è mai capitato di dire a un cliente “scusa, nelle prossime due settimane non sono disponibile”. Al limite rifiuto progetti troppo corposi, se voglio allentare un po’ i ritmi, però in genere continuo ad accettarne di più rapidi e leggeri. Nel caso di staccare del tutto la spina, invece, l’unica soluzione è avere clienti comprensivi, perché quelli che ti rimpiazzano come collaboratore solo per una o due settimane di assenza, forse, non sono proprio i migliori clienti che potresti desiderare.

La creatività e l’etica, per un copywriter freelance, sono la stessa cosa. (The Copylight Zone #14)

E per un copywriter freelance si tratta di un discorso tecnico, non morale.

Dopo la laurea, un master e varie esperienze di lavoro giornalistiche, ormai più di dieci anni iniziai a fare il copywriter in McCann Erickson Milano – proprio l’agenzia che in Mad Men, come sede storica di New York, è la principale nemesi di quella di Don Draper e che lui definisce “fabbrica di salsicce”. Scena che ricordo sempre con simpatia perché, guarda caso, il mio primissimo lavoro fatto e uscito in McCann fu proprio un annuncio stampa per i wurstel Wuber.

In ogni caso, non volevo citarla per questo prezioso aneddoto, ma per il suo motto Truth Well Told, che per me al di là di un’ottima filosofia sintetizza proprio il metodo di base per essere un buon creativo pubblicitario.

Infatti, la domanda più frequente rivolta a copywriter e art director è “dove prendete le idee?” e la risposta, a mio avviso, può essere una sola: prima trovi (di solito nel brief stesso, se è un buon brief) qualcosa di assolutamente vero da dire sul prodotto o il servizio da pubblicizzare, e poi una maniera originale, interessante, ironica, sorprendente… per comunicarlo.

È in questo senso che l’etica e la creatività coincidono, perché è impossibile fare una buona campagna pubblicitaria se il messaggio di fondo non corrisponde a verità. Del resto, ai suoi albori la pubblicità aveva appunto una funzione informativa – l’insegna di un negozio, ad esempio – e un panettiere non ne avrebbe certo appesa una con scritto “Lavorazione cuoio”.

Anche uno degli annunci più famosi nella storia della pubblicità, citato in tutti i manuali, pur nella sua strategia provocatoria e controcorrente (chiamata appunto negative approach dal suo ideatore Bill Bernbach) segue questa regola:

volkswagen_lemon L’automobile, nel titolo, viene definita “Lemon”, “Rottame”, e la bodycopy specifica che si tratta di un veicolo che non ha superato i rigorosi controlli di qualità e sicurezza della Volkswagen. Dunque, anche con un approccio così inconsueto – sempre in una scena di Mad Men, Don Draper commenta questo annuncio con “Non so cosa mi faccia più schifo, la pubblicità o l’auto”, per sottolineare il fatto che era così avanti per l’epoca che neanche un creativo brillante come lui riusciva a coglierne (ancora) la genialità – il punto di partenza della creatività efficace rimane sempre una semplice informazione, un dato di fatto, una caratteristica onesta e sincera del prodotto.

Nel giudicare la comunicazione pubblicitaria, insomma, prima di partire con la solita accusa di essere falsa, ingannevole, sessista, denigratoria… bisogna sempre considerare questo aspetto: il messaggio di fondo corrisponde al vero? Per quanto mi riguarda, ribadisco che questo dev’essere sia il metro di giudizio della correttezza della campagna, sia il fondamento, etico e creativo, del lavoro del copywriter (freelance).

Un copywriter freelance scrive meglio di me? (The Copylight Zone #13)

Domanda lecita. Ecco ciò che rende peculiare il modo di scrivere di un copywriter freelance.

Sebbene la lingua italiana non sia tra le più semplici da padroneggiare, leggere e scrivere per chiunque sono abilità di uso quotidiano (far di conto un po’ meno, oggi che basta chiedere a Google o a Siri il risultato di 2+2). Dunque, visto che tutti sono capaci di scrivere, perché pagare qualcuno per farlo al posto tuo, nel caso di un testo pubblicitario?

Ho una risposta molto concreta, al di là di quella standard “perché per un lavoro professionale ci vuole un professionista” – cosa comunque vera, in qualsiasi ambito. La risposta è: per un progetto di marketing, pubblicità e comunicazione ti serve un copywriter (freelance) perché un copywriter (freelance) è uno scarafaggio.

Mi spiego, partendo da ciò che distingue quello pubblicitario da tutti gli altri testi. Nei panni di chi legge, sappiamo tutti cos’è: cerca di convincermi ad acquistare un prodotto o un servizio. E nei panni di chi scrive? In questo caso la differenza, sostanziale, è che si tratta sempre di un testo provvisorio, come se fosse la battigia rimodellata di continuo dal mare, anziché un terreno asciutto e compatto.

Per giungere al titolo dell’annuncio stampa che vedi sul giornale, al dialogo dello spot, all’hashtag della campagna sui social, si passa da numerose proposte bocciate e da altrettanto numerose richieste di modifiche, integrazioni, rielaborazioni totali o parziali, ripensamenti del cliente e cambi di rotta dell’ultimo minuto.

Premesso ciò, non è detto che un copywriter scriva meglio di te e, molto probabilmente, non lo fa meglio di uno scrittore che vende milioni di libri. Ma, rispetto a quest’ultimo, che possiamo definire un cigno, è meno appariscente – la dimensione naturale del copywriter è l’anonimato – però di gran lunga più coriaceo nei confronti delle critiche alla sua scrittura. Uno scarafaggio, appunto.

Facciamo un altro esempio. Immagina di essere un alunno al quale la maestra chieda di riscrivere il tema che, dopo ore di duro impegno, le hai appena consegnato. Con richieste più o meno sensate, che so di trasformare tutti i verbi dal presente al passato. Immagina che chieda la stessa cosa a tutta la classe.

Al primo giro, forse qualche bambino storcerà il naso ma quasi tutti lo faranno. Però, finita la seconda versione del testo, lei chiederà altre modifiche e così via, con paletti sempre più difficili da rispettare.

Quasi tutti i bambini, per la frustrazione, l’ego ferito, la noia, la disperazione aggiungiamo pure, prima o poi si arrenderanno. Soltanto uno di loro, forse, non necessariamente il più bravo a scrivere della classe, continuerà invece a testa bassa ad ascoltare e applicare le nuove richieste, cercando di soddisfarle al meglio e non gettando via la penna finché la maestra non si mostrerà soddisfatta.

Ecco, quel bambino non è detto che farà lo scrittore, ma di sicuro ha già imparato l’essenziale per diventare un copywriter (freelance).

La pubblicità è arte? In un certo senso, sì. (The Copylight Zone #12)

La pubblicità, anzi, è arte nella sua forma più pura, nel senso di Schopenhauer del termine.

Chiarimento necessario: non si tratta com’è ovvio di un giudizio qualitativo, sul valore artistico – un sonetto di Shakespeare ne avrà sempre uno infinitamente superiore a qualsiasi annuncio pubblicitario – ma di qualcosa legato alla funzione sociale.

Per Schopenhauer, l’arte è un momento di sollievo dalla nostra cieca volontà desiderante, una brevissima tregua dalla sofferenza del desiderio nell’oasi della contemplazione.

Ad esempio, un uomo può guardare il dipinto di una donna attraente, ammirando la sua bellezza in modo rilassato, perché sa di non poterla avere (in quanto mera rappresentazione), mentre la vista di una donna affascinante in carne e ossa, per strada, causa in lui il desiderio – doloroso – di non poterla possedere lì su due piedi: un’esperienza dunque che, dal punto di vista estetico, al contrario di quella provocata dal quadro è vissuta in modo negativo.

Premesso ciò, nella pubblicità io trovo che questo momento di sollievo sia potentissimo, addirittura più che nell’arte. E’ un paradosso curioso, perché lo scopo ultimo della réclame è diametralmente opposto, cioè spingerti a comprare qualcosa proprio per soddisfare quel desiderio che – sempre seguendo Schopenhauer – non potrà mai essere appagato: ti stancherai quasi subito dei nuovi cereali, della nuova auto, del nuovo smartphone; vorrai un altro modello, ti annoierà dopo breve tempo anche quest’ultimo e così via.

Ma, nel momento in cui guardi la pubblicità di un nuovo prodotto, probabilmente non lo possiedi ancora. In quegli istanti, allora, puoi goderti a pieno l’esperienza estetica, in genere identificandoti con le persone, raffigurate nello spot o nell’annuncio pubblicitario, rese felici da ciò che tu non hai ancora sperimentato.

Quei pochi secondi di visione della pubblicità sono, quindi, un breve sollievo dal dolore del desiderio, di effimero appagamento, di gioia immaginaria (ma dentro di te reale). Subito dopo, certo, andrai a fare la spesa e ricomincerà l’inevitabile ciclo frustrante di desiderio-noia-sofferenza-desiderio, ma la fruizione dello spot o dell’annuncio in sé, in beffardo contrasto con il suo fine ultimo, genera felicità.

5 differenze tra copywriter freelance e copywriter interno. (The Copylight Zone #11)

Penna rossa o penna blu? Meglio la vita da copywriter freelance o da copywriter dipendente?

Avendo alle spalle quattro anni come copywriter interno e sette come freelance, posso elencare con una certa precisione le differenze tra le due modalità di lavoro. Di solito, quando mi viene rivolta questa domanda, uso la metafora del pesce: diventare copywriter freelance è come passare da un acquario o un allevamento, dove la vasca è sempre la stessa e ricevi il mangime con regolarità, al mare aperto, dove l’ambiente è sconosciuto, il cibo va procacciato ogni giorno e dietro ogni angolo può celarsi un predatore.

Ecco quindi cinque differenze tra pesce rosso e pesce blu, copywriter freelance e copywriter d’agenzia (o d’azienda):

1) La caccia: da copywriter dipendente, i progetti ti vengono assegnati tramite il cosiddetto progress, che di norma nelle agenzie viene fatto dalla direzione creativa il lunedì mattina ed è, appunto, la suddivisione dei nuovi lavori tra i vari copywriter e art director. Nei giorni successivi possono arrivarti anche altri progetti da fare, ma in generale così ti fai subito un’idea di quasi tutto ciò che farai durante la settimana. Da freelance al contrario il tuo personale progress te lo fai da solo e può cambiare di giorno in giorno, o anche di ora in ora, in base ai lavori da completare, alle nuove richieste e opportunità, alle rilavorazioni e alle consegne urgenti e non. Perciò, come abbiamo detto, nessuno ti butta il mangime nella vasca, ma ogni istante è una caccia continua.

2) La compagnia: da impiegato non è molto varia, visto che i colleghi sono più o meno sempre gli stessi – più o meno perché le agenzie pubblicitarie hanno un turnover altissimo, quindi in realtà di facce nuove se ne vedono spesso – ed è difficile incontrare i clienti, se non durante sporadici meeting e presentazioni (a quali però di solito vanno il direttore creativo e gli account, mentre i copywriter senior e ancor meno i junior raramente sono invitati). Da freelance invece, tra clienti e colleghi, fai nuove conoscenze quasi ogni giorno. Il che può essere sia positivo che negativo, perché nell’acquario bene o male conosci tutti gli altri pesci e sai come regolarti con ognuno di loro, mentre il mare aperto richiede molta più circospezione.

3) L’habitat: come creativo interno nuoti sempre nello stesso acquario/ufficio. Nelle agenzie va di moda l’open space, questo orrore contemporaneo che ha sostituito i buoni vecchi ufficietti, nel quale non solo te ne stai ogni giorno nello stesso posto, ma è un posto caotico e rumoroso dove spesso è impossibile concentrarsi. Il copywriter freelance invece ha la sua tana/studio riservata, silenziosa e confortevole, da cui può uscire quando desidera per incontrare altri pesci o fare una nuotata solitaria. Almeno per questo aspetto, insomma, da dipendenti si lavora molto peggio e ci si stressa molto di più.

4) I pericoli: nell’acquario sei protetto da qualsiasi rischio e ricevi ogni sorta di incentivo a restarci: malattia ferie e permessi pagati, tredicesima e quattordicesima, buoni pasto, rimborsi, bonus, auto aziendali e altro ancora. Nel mare aperto, al contrario, devi imparare a cavartela da solo senza nessun aiuto. Da un lato questo ogni tanto può essere sconfortante, ma dall’altro ti rende più forte ogni giorno che passa, mentre impari a districarti sempre meglio tra le varie minacce.

5) La libertà: in teoria tutti la amano e la sognano, ma nella pratica come scelta lavorativa non è molto popolare, dato che la maggior parte delle persone, in tutto il mondo, continuano a preferire il lavoro dipendente. Come ho già scritto, da (copywriter) freelance l’essenziale è avere una disciplina molto solida, molto più che in agenzia/azienda, dove spesso sotto l’apparenza della grande struttura super efficiente regna invece la disorganizzazione. Perché avere disciplina significa essere davvero liberi. Non amo molto gli speech motivazionali, perché credo che ognuno debba costruirsi da sé le proprie motivazioni, ma su questo tema voglio chiudere linkando queste breve discorso di Jocko Willink, un ex navy seal, che lo spiega in modo perfetto, con parole che avrebbe scelto un copywriter professionista:

Un copywriter freelance può essere un nomade digitale? (The Copylight Zone #10)

Risposta breve: certo. Risposta lunga: dipende da che tipo di copywriter freelance sei.

Come si può intuire dal termine, un nomade digitale è qualcuno che, avendo bisogno solo di un laptop e di una connessione per fare il proprio lavoro, è libero di svolgerlo ovunque ci siano elettricità e internet.

In particolare, almeno dal punto di vista economico, il vantaggio più evidente sarebbe avere clienti che pagano compensi da paesi ad alto reddito, soggiornando però in una nazione dove il costo della vita è ridotto. Esempio: se come (copywriter) freelance lavorassi da remoto per un’agenzia di New York ma abitassi, che so, a Jakarta, a parità di stile di vita metterei da parte molti più soldi che se dovessi pagare affitto, servizi, cibo, mezzi di trasporto, svaghi ecc… nella Grande Mela.

Di persona non conosco nessuno che faccia una vita del genere, ma non dubito che i nomadi digitali, copywriter freelance e non, siano ormai centinaia di migliaia di persone, sommando ogni settore. Basandomi sulla mia esperienza, al di là del grande vantaggio appena menzionato, posso immaginare alcune criticità.

La prima riguarda la garanzia di un flusso costante di lavoro. Come ho già scritto, per un copywriter freelance avere soltanto uno o due clienti è una pessima idea, dato che se li perdi poi rimani subito a terra. Quindi, di partenza, sarebbe necessario avere un numero di committenti abbastanza ampio, solido e che accettino tutti la condizione del lavoro da remoto.

E qui il secondo punto dolente: anche se in teoria un copywriter freelance può svolgere benissimo per intero il suo lavoro da remoto, usando Skype per brainstorming, meeting e riunioni, in pratica moltissimi clienti, almeno all’inizio e negli step più importanti dei progetti, richiedono quasi sempre incontri fisici in sede.

Questa mentalità “pre-digitale” da noi purtroppo è ancora molto radicata, dunque nel caso sarebbe difficile tenersi nel tempo dei clienti italiani – con quelli esteri, sempre per la mia limitata esperienza, va molto meglio sotto questo aspetto. D’altro canto, specialmente in caso di problemi burocratici e/o legati ai pagamenti, avere dei clienti raggiungibili con facilità rappresenta un vantaggio anche per il copywriter.

In generale, diventare un nomade digitale è una scelta simile a quella di passare da dipendente a freelance: bisogna fare un’attenta valutazione di rischi e opportunità e, soprattutto, avere la mentalità giusta per “buttarsi” una volta messo a punto un buon piano.

Per quanto mi riguarda, io non avrei problemi a vivere in qualsiasi luogo del mondo dove ci sia un buon posto dove fare running sotto casa – per questo, dove risiedo ormai da più di 15 anni, in dieci minuti di corsetta di riscaldamento sono al Parco Nord – ma come ho già scritto non amo molto viaggiare, quindi se dovessi trasferirmi sarebbe comunque nell’ottica di stanziarmi per un bel po’ nella nuova casa. Per ora, analizzando pro e contro, niente nomadismo per me, ma non escludo che in futuro possa entrare nel mio orizzonte.

 

 

 

Come sono i copywriter nei film e nelle serie? (The Copylight Zone #9)

In genere persone brutte. O, peggio, stupide. Ma ci sono anche “i buoni” (copywriter).

Poco tempo fa ho recuperato The Square, il film svedese che ha vinto il Festival di Cannes dell’anno scorso e, malgrado l’ottima qualità della pellicola, tra i personaggi mi ha colpito il solito, banale ritratto dei creativi pubblicitari come cialtroni irresponsabili.

Niente di nuovo. Anche solo restando in Italia, basta pensare ai copywriter nelle commedie degli anni ’80 – Jerry Calà in Yuppies o Massimo Boldi in Mia moglie è una bestia – fino al Raoul Bova di Scusa ma ti chiamo amore, per capire che si tratta di uno stereotipo ben consolidato.

In altri film, di maggior spessore, i pubblicitari vengono magari ritratti come persone abbastanza serie, ma – immancabilmente – schiacciate dallo stress e inquinate dal cinismo del marketing, personaggi che hanno sempre bisogno di un “cambiamento positivo”: dal classico Kramer contro Kramer a What Women Want e Sweet November.

Caso particolare è il francese 99 Francs, basato su un romanzo scritto da un vero copywriter e dunque quello che nel mucchio – a suo modo – rispecchia meglio la realtà professionale, ma con intenti satirici che lo rendono anche il più esagerato e implausibile nella maggior parte delle scene.

Per i copywriter “buoni”, allora, proviamo a rivolgere lo sguardo alle serie. Facilissimo, direte voi: Mad Men. E invece no. La stupenda serie di Matthew Weiner di certo presenta molti copywriter memorabili e “positivi” – Peggy Olson, su tutti – ma racconta un’epoca dove il mestiere era molto diverso (e, purtroppo per me e i miei colleghi, molto più remunerativo) e la descrizione delle dinamiche professionali spesso viene distorta da esigenze drammatiche. Anche se, a onor del vero, chiunque abbia lavorato in un’agenzia pubblicitaria sa che certe situazioni incredibili agli occhi esterni possono essere ordinaria amministrazione, quindi il secondo punto è abbastanza marginale.

Mi stai dicendo, allora, che esiste anche una serie che descrive il lavoro del copywriter e degli altri creativi pubblicitari di OGGI in modo attendibile? La risposta è sì, anche se purtroppo è (semi)sconosciuta ed è stata cancellata dopo una sola stagione. Credetemi, anzi Trust Me.

Musica per copywriter caldi (The Copylight Zone #8)

Un paio di considerazioni sul rapporto tra musica e pubblicità, nell’ottica di un copywriter freelance.

Prima di tutto, brofist ai giusti che hanno colto subito la citazione nel titolo (se non sei tra loro, clicca qui). Quindi passiamo subito al tema del post, su cui si potrebbero scrivere migliaia di pagine ma, come anticipato, avendo vari file Word di lavoro aperti che mi aspettano trepidanti, io mi limiterò solo a qualche osservazione sparsa.

Di solito, in agenzia o come freelance, il copywriter è anche la figura che si occupa della scelta dei brani musicali, per spot tv, radio, eventi e altri materiali che ne richiedono uno o più. Una cultura molto vasta in questo campo è dunque essenziale, malgrado nel processo creativo tale scelta sia spesso molto penalizzata.

Caso tipico n°1: il cliente non ha budget e bisogna pescare un brano royalty-free o a poco prezzo nelle banche dati, dove per la maggior parte sono composizioni standard organizzate in categorie standard, di modo che i commercial che hanno queste colonne sonore “bright/relaxing/energetic/romantic/ecc… mood” finiscono per suonare, appunto, tutti uguali.

Caso tipico n°2: il cliente ha molto budget e al suo spot si finisce per appiccicare la – costosissima – hit pop/disco del momento, non perché c’entri qualcosa con la creatività dello spot, ma appunto soltanto perché è il brano più popolare in classifica. Ci aggiungi un testimonial nazionalpopolare, una scenetta da commedia dozzinale e hai il 90% della comunicazione pubblicitaria per la telefonia, ad esempio.

Tutto ciò è un vero peccato, perché la colonna sonora – potenzialmente – può invece diventare la vera anima dello spot. Voglio fare due esempi, due spot che da piccolo mi hanno davvero ispirato a diventare copywriter. Nel primo c’è un uso diegetico della musica, nel secondo extradiegetico. Detta semplice: la musica diegetica è dentro lo spot (o il film), la ascoltano i personaggi, mentre quella extradiegetica, più comune, è la classica colonna sonora di accompagnamento, che i personaggi non sentono e non fa quindi parte del loro mondo narrativo.

1) Renault Clio MTV “Get Uppa” (2000)

In questo caso, più unico che raro, canzone, naming del prodotto e idea creativa si fondono in maniera inscindibile; non è difficile capire perché, ai tempi, Get Uppa fosse diventato un tormentone popolarissimo. In teoria, il concept potrebbe reggere anche con un altro brano – ovviamente perdendo però tutta la forza del link col nome dell’auto – ma la musica, e il suo ruolo nella vita dei personaggi, sarebbe comunque rimasta al centro della scena, come vera e insostituibile protagonista.

B) Levi’s 501 “Creek” (1994)

Questo è un esempio più classico di commento musicale, ma la perfezione con la quale il brano si adatta alle immagini, al loro montaggio e allo spirito del brand crea un binomio indissolubile con il commercial, tanto che sembra un vero e proprio videoclip (lo spot era ed è infatti di gran lunga più noto di quello vero).

A questo punto si potrebbero fare moltissimi altri esempi, anche di usi diversi e più creativi della musica in pubblicità, ma date le consegne impellenti stamattina mi fermo al “paio di considerazioni” anticipate nel titolo. Ribadisco solo il rammarico, da copywriter freelance, di quanto l’occasione di poter scegliere e soprattutto veder uscire spot in cui la musica abbia un ruolo così straordinario sia molto raro. E ancor di più nei radio, dove spesso bisogna semplicemente adattarsi al brano corporate che il brand si porta dietro da anni. Per un copywriter che ama la musica, insomma, è un mondo difficile.