La pubblicità, anzi, è arte nella sua forma più pura, nel senso di Schopenhauer del termine.
Chiarimento necessario: non si tratta com’è ovvio di un giudizio qualitativo, sul valore artistico – un sonetto di Shakespeare ne avrà sempre uno infinitamente superiore a qualsiasi annuncio pubblicitario – ma di qualcosa legato alla funzione sociale.
Per Schopenhauer, l’arte è un momento di sollievo dalla nostra cieca volontà desiderante, una brevissima tregua dalla sofferenza del desiderio nell’oasi della contemplazione.
Ad esempio, un uomo può guardare il dipinto di una donna attraente, ammirando la sua bellezza in modo rilassato, perché sa di non poterla avere (in quanto mera rappresentazione), mentre la vista di una donna affascinante in carne e ossa, per strada, causa in lui il desiderio – doloroso – di non poterla possedere lì su due piedi: un’esperienza dunque che, dal punto di vista estetico, al contrario di quella provocata dal quadro è vissuta in modo negativo.
Premesso ciò, nella pubblicità io trovo che questo momento di sollievo sia potentissimo, addirittura più che nell’arte. E’ un paradosso curioso, perché lo scopo ultimo della réclame è diametralmente opposto, cioè spingerti a comprare qualcosa proprio per soddisfare quel desiderio che – sempre seguendo Schopenhauer – non potrà mai essere appagato: ti stancherai quasi subito dei nuovi cereali, della nuova auto, del nuovo smartphone; vorrai un altro modello, ti annoierà dopo breve tempo anche quest’ultimo e così via.
Ma, nel momento in cui guardi la pubblicità di un nuovo prodotto, probabilmente non lo possiedi ancora. In quegli istanti, allora, puoi goderti a pieno l’esperienza estetica, in genere identificandoti con le persone, raffigurate nello spot o nell’annuncio pubblicitario, rese felici da ciò che tu non hai ancora sperimentato.
Quei pochi secondi di visione della pubblicità sono, quindi, un breve sollievo dal dolore del desiderio, di effimero appagamento, di gioia immaginaria (ma dentro di te reale). Subito dopo, certo, andrai a fare la spesa e ricomincerà l’inevitabile ciclo frustrante di desiderio-noia-sofferenza-desiderio, ma la fruizione dello spot o dell’annuncio in sé, in beffardo contrasto con il suo fine ultimo, genera felicità.